Stagionalità, valorizzazione del prodotto, proprietà nutritive: non stiamo parlando di specialità mangerecce, ma di rifiuti. Considerare gli scarti come elementi preziosi è l’approccio adottato dai ricercatori del Politecnico di Torino che negli ultimi quattro anni, insieme ad aziende blasonate (da Ferrero a Lavazza passando per Fontanafredda), hanno ridisegnato il modo di concepire gli scarti agroalimentari. E il loro riuso.

«Immaginate quanti rifiuti producono queste aziende in un determinato periodo dell’anno, ecco perché anche la stagionalità del rifiuto è importante quando si parla di recupero e riciclo» ha spiegato lo scorso 10 luglio nel corso della presentazione dei risultati del progetto EcoFood Debora Fino, esperta di impianti chimici e reimpiego degli scarti nei processi industriali per la produzione di energia nonché docente presso il Dipartimento di Scienza Applicata e Tecnologia del Politecnico torinese.

Il progetto, cofinanziato con fondi europei e costato in tutto circa 7 milioni di euro, ha coinvolto la filiera agroalimentare della regione Piemonte, le università e gli enti pubblici locali, per capire come reimpiegare in modo efficiente scarti delle nocciole, del cioccolato, del caffé, del riso, del vino. Elementi che per il team della professoressa tutto sono meno che scarti e che non hanno una vocazione locale ma internazionale. «Non sempre si presta attenzione al momento in cui un certo prodotto viene realizzato: invece sapere che le lavorazioni seguono un ritmo, una stagionalità, è stato importantissimo per disegnare processi di riuso efficaci. Molti di questi sotto-prodotti, adesso, riescono ad essere reimpiegati per la produzione di energia – ha continuato la Fino – La nocciola, ad esempio se reimmessa nel ciclo riesce a ridurre del 30% il fabbisogno energetico del processo produttivo». Un risultato che si presta a diventare buona pratica adottata da qualunque azienda che nel mondo abbia a che fare con gusci, noci, nocciole.

Una delle applicazioni più interessanti dei residui agroalimentari, però, riguarda il packaging dei prodotti: riso e altri alimenti possono rafforzare le confezioni e migliorarne le capacità di conservare i cibi. La Fino ha provato con la sua squadra anche a produrre etichette alimentari con i derivati del riso. «In questa immagine – ha illustrato la professoressa indicando un’etichetta un po’ sgranata – potete vedere il livello di trasparenza raggiunto per le etichette e il packaging agroalimentare: dobbiamo ancora lavorarci ma è possibile utilizzare gli scarti anche per dare informazioni al consumatore».

Lo studio, insomma, dimostra che le aziende non solo possono risparmiare valorizzando gli scarti ma possono anche produrre alimenti a più basso impatto ambientale. E’ il caso dello Chardonnay prodotto senza anidiride solforosa aggiunta bensì con l’aiuto di sostanze ottenute dalla lavorazione dei residui produttivi del vino. Quello dello scarto agroalimentare riutilizzato non è più un tabù ma non è ancora largamente diffuso. Secondo il Consiglio Nazionale delle Ricerche, che da tempo coordina progetti per il reimpiego intelligente di rifiuti, solo nel periodo 2012-2013 in media per ogni ciclo produttivo industriale – a livello mondiale – sono stati prodotti 135 mila tonnellate di scarti dalla lavorazione del pomodoro, 1,5 tonnellate dall’uva e dal vino, 1,9 milioni dalla paglia, 0,4 milioni dal riso. Risorse preziose non sempre sfruttate per mancanza di sistemi di recupero adeguati e di soldi.

Per arrivare a un ciclo a impatto ambientale quasi zero, però, la strada è ancora lunga. «Bisogna personalizzare, customizzare l’impianto di riciclo perché non esiste un impianto perfetto. Efficace ed efficiente. Occorre adattarlo al tipo di scarto» ha concluso Debora Fino. I benefici della ricerca, tuttavia, sono riconosciuti al punto tale che nonostante l’esaurimento dei fondi diverse aziende coinvolte hanno deciso di continuare le sperimentazioni aprendo direttamente il loro portafogli. «Certo – ha sottolineato la professoressa – analizzare e reimpiegare gli scarti ha ancora un costo elevato, ma dobbiamo farlo».